Settantasei anni fa, alle 19.42 dell’8 settembre 1943 la radio interrompeva i programmi e la voce del maresciallo Pietro Badoglio, incisa su disco, annunciava agli Italiani la firma dell’armistizio con il quale il regno d’Italia cessava ogni attività bellica nei confronti degli Alleati, fino ad allora nemici, sancendo così l’inizio della Resistenza contro il nazifascismo. L’annuncio colse impreparati i militari italiani, impegnati in Italia e all’estero. Centinaia di migliaia di soldati si ritrovarono allo sbando, perché senza direttive. Mentre tutto ciò accadeva, nel caos più totale, il Re, la Regina, Badoglio, alcuni ministri e generali dello stato maggiore fuggivano da Roma verso Brindisi, che fu per alcuni mesi capitale d’Italia.
“Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo” è la frase dello scrittore spagnolo George Santayana che si trova incisa in trenta lingue su un monumento nel campo di concentramento di Dachau.
L’8 settembre 1943 fu una data storica per la nostra nazione, un punto di partenza verso una sanguinosa guerra di liberazione dall’occupazione tedesca. Nell’autunno del 1943, circa 800.000 soldati italiani furono catturati e disarmati dai tedeschi. Di questi, circa 650.000 mila finirono, dopo viaggi interminabili in nave o in vagoni piombati, nei campi di prigionia tedeschi in Germania, Austria e Polonia, dove morirono oltre da 40 mila soldati italiani.
“L’8 settembre 1943 e gli eventi che seguirono rappresentarono, per molti italiani, la fine drammatica di un’illusione – sono le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel corso del suo intervento il 25 aprile 2019 a Vittorio Veneto -. Con la dissoluzione dello Stato, i morti, i feriti e le gravissime sconfitte militari, l’Italia era precipitata in una lenta ma terribile agonia. Il Re era fuggito abbandonando Roma al suo destino, le truppe germaniche avevano invaso il territorio nazionale, seminando ovunque terrore e morte, a Salò si era insediato un governo fantoccio, totalmente nelle mani naziste. Fu in questo contesto che molti italiani, donne e uomini, giovani e anziani, militari e studenti, di varia provenienza sociale, culturale, religiosa e politica maturarono la consapevolezza che il riscatto nazionale sarebbe passato attraverso una ferma e fiera rivolta, innanzitutto morale, contro il nazifascismo. Nacque così, anche in Italia, il movimento della Resistenza alla barbarie, alla disumanizzazione, alla violenza: un fenomeno di portata internazionale che accomunava, in forme e modi diversi, uomini e donne di tutta Europa”.
Dopo l’8 settembre, come in tutta l’Italia del Centro Nord si formarono i primi nuclei di partigiani costituiti da militari italiani, renitenti alla leva, antifascisti e soldati stranieri fuggiti dai campi di prigionia. A proposito di renitenti alla leva, i giovani che dopo l’8 settembre non risposero ai bandi per la leva delle classi dal 1923 al 1926 furono migliaia, nonostante un decreto del 18 febbraio 1944 della Repubblica Sociale Italiana che comminava la pena di morte a chi non rispondeva alla chiamata. Molti renitenti scelsero di salire in montagna e aggregarsi alle formazioni partigiane. La Resistenza, che fu “una guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; una guerra civile contro la dittatura fascista e infine anche una guerra di classe per l’emancipazione sociale”, come ha sostenuto lo storico Claudio Pavone, mobilitò 365 mila fra partigiani, combattenti e patrioti. Ossia il più vasto e spontaneo movimento popolare che la storia d’Italia ricordi. Furono 45mila i partigiani uccisi e oltre 20 mila quelli resi invalidi dalla guerra. La Resistenza non fu solo opera di uomini, ma un grande contributo di sacrifici e di sangue fu pagato dalle donne che parteciparono agli scontri armati e a tutte le attività di supporto alle formazioni partigiane. E il tributo fu grande: 2.900 donne fucilate o cadute in combattimento, 2.750 deportate, 4.653 arrestate e torturate, ha sostenuto Katia Romagnoli del Centro Studi della Resistenza.
“Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi”, aveva sostenuto Sandro Pertini, Presidente della Repubblica dal 1978 al 1985, nel messaggio di fine anno agli italiani del 1979. Quelli che dal 25 aprile del 1945 vivono in una nazione libera, dove i diritti delle persone sono inviolabili, hanno il dovere di ricordare e onorare quanti hanno sacrificato la vita per il nostro paese e di presidiare la vita democratica per impedire che le dittature possano tornare.
E’ questo il dovere della memoria. A tutte le vittime del nazifascismo Giuseppe Ungaretti dedicò la poesia “Per i morti della Resistenza” che dice: “Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce, perché tutti li avessero aperti per sempre alla luce”.
E’ stato presentato a Roma il 30 maggio 2019 il progetto “Noi, partigiani”, promosso da Anpi, che prevede la realizzazione, in un paio di anni, di un archivio pubblico contenente interviste video alle partigiane e ai partigiani viventi, centinaia di persone. Il coordinamento editoriale e la raccolta di queste interviste sarà realizzato dai giornalisti Gad Lerner e Laura Gnocchi, che hanno proposto all’Anpi l’importante progetto. “L’intento è quello di dare forma ad un memoriale vivo e condiviso, e al tempo stesso di fornire un’importante documentazione ai ricercatori e un moderno strumento di conoscenza storica e democratica alle nuove generazioni. Sarà realizzato, infatti, un archivio digitale che sarà consultabile da tutti i cittadini. Qualcosa di più, quindi, di un momento celebrativo. Una grande operazione culturale per rinnovare nel tempo la consapevolezza che la Resistenza costituisce un passaggio decisivo per la costruzione della convivenza civile e per instillare nella coscienza delle italiane e degli italiani l’imprescindibilità dei valori di libertà, umanità e giustizia”, ha sostenuto la presidente dell’Anpi Carla Nespolo. La memoria è il patrimonio sul quale costruire il futuro dei nostri figli. Il testimone della Shoah, Elie Wiesel, ebreo superstite di Auschwitz, deceduto nel 2016, scrisse “Il male peggiore è l’indifferenza. Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza; il contrario della vita non è la morte, ma l’indifferenza; il contrario dell’intelligenza no, non è la stupidità, ma l’indifferenza”.
Giuseppe Manzo