Il Gran Mufti, la campagna è un crimine che mira alla società saudita e musulmana
I selfie e gli hastag delle donne saudite invadono i social network in segno di protesta contro il sistema dei guardiani, secondo il quale a decidere sulla vita di una donna o sul suo diritto a viaggiare, studiare, lavorare, o persino ricevere cure mediche, debba essere un uomo. Sul web sono apparsi hastag come #TogetherToEndMaleGuardianship e foto di donne esibire messaggi come: “La schiavitù si esprime in diverse forme, il sistema dei guardiani è una di queste”. Oppure, mostrando un passaporto, denunciano: “Sono prigioniera e il mio crimine è quello di essere una donna saudita”. Un guardiano, infatti, può decidere sul rinnovo del documento per l’espatrio.
Definito da Human Rights Watch come “il più grande ostacolo alla realizzazione dei diritti delle donne nel Paese”, questo sistema prevede che le donne, a prescindere dall’età o dallo stato sociale di appartenenza, siano inizialmente sotto il controllo del padre, per passare poi a quello del marito o del fratello. Un costume per il quale la stessa ong ha accusato l’Arabia Saudita di violare la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW), che ha firmato nel 2000.
Nel 2015 Riad ha concesso per la prima volta alle donne di votare e di candidarsi alle elezioni comunali. Un piccolo passo avanti in un Paese molto conservatore, nonostante molti analisti non credano si possa parlare di una vera e propria apertura. La più alta autorità religiosa del Paese, il Gran Mufti, ha difatti già bollato la campagna social contro i guardiani come “un crimine che mira alla società saudita e musulmana”, aggiungendo che il sistema continuerà ad esistere.