Quando il professor Mirco Marconi e i colleghi dell’Istituto di istruzione superiore Antonio Zanelli di Reggio Emilia hanno cominciato a girare nei Comuni della zona alla ricerca di prodotti che rischiavano di scomparire non era ancora il 2000. «All’epoca, lavorare in questo modo non era di moda come oggi» racconta Marconi, responsabile del nuovo Presidio Slow Food degli Antichi meloni reggiani. Mirco faceva già parte di Slow Food, di cui poi è stato fiduciario della Condotta reggiana, ma la molla che lo fece scattare fu un’altra: un ricordo di famiglia. «Mio nonno era un commerciante di frutta e io ricordavo quando, da bambino, mangiavo dei meloni che non ho mai più trovato in giro. Così siamo partiti, perlustrando la Bassa reggiana e il mantovano». Prima recuperando la zucca Cappello da prete, entrata a far parte dell’Arca del Gusto Slow Food, e poi orientandosi verso meloni e angurie.
La coltivazione di meloni, nel Reggiano, ha una lunga tradizione, in particolare nelle valli tra Novellara, Guastalla e Santa Vittoria. Le varietà che si trovavano in commercio qualche decennio fa erano più di quelle di oggi, che a farla da padrone sono quelle che si conservano più a lungo e il cui gusto è più dolce. Il lavoro di riscoperta portato avanti dall’Istituto Zanelli però ha consentito di recuperarne altre quattro, ognuna diversa dall’altra per caratteristiche e sapore.
Cominciamo dal “melone rospa”, sicuramente quello la cui storia è più lunga: «È uno dei più antichi in assoluto in Italia – spiega Marconi -. Ha un aspetto simile a una zucca e deve il suo nome alle verruche sulla superficie». E particolare è anche il gusto, non molto dolce, sapido e leggermente piccante, caratteristiche che lo rendono eccellente cotto al forno con cioccolato e amaretti, come le più consuete pesche.
Ma c’è un’altra curiosità legata al melone rospa: compare in diversi dipinti italiani del ‘600 e anche negli affreschi di Palazzo Te, a Mantova, ne vengono raffigurati di simili. Una storia importante, al punto da venire citati dall’agronomo reggiano Filippo Re in un documento del 1811.
C’è poi il cosiddetto “ramparino”, che deve il suo nome al fatto che cresce bene come rampicante. È un melone dal gusto probabilmente un po’ più difficile: poco dolce e con note pepate, per questo motivo può anche essere utilizzato in insalata.
Gli ultimi due appartengono alla tipologia “banana”, chiamata così per la polpa bianca e l’aroma che richiama il frutto omonimo. Il primo è quello di Santa Vittoria, profumatissimo e dalla forma ellittica, e l’altro il Lentigione, più tondeggiante: «Dei quattro, il Lentigione è forse il più interessante – commenta Marconi – e si presta a essere mangiato come frutto più che ad accompagnare i tradizionali salumi».
Anche in questo caso la storia è intrigante: «Lo ricordavano poche persone, solo nell’area tra Brescello (nel Reggiano) e Sorbolo (in provincia di Parma), ma non siamo ancora riusciti a scoprirne l’origine, anche se ci sono varie ipotesi in campo, come il suo arrivo dalla Libia in epoca coloniale, visto che qualcuno pare lo chiamasse “tripolino”».
Il Presidio è sostenuto da Emil Banca – Credito Cooperativo e dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Il Presidio degli Antichi meloni reggiani è finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direzione Generale del Terzo Settore e della Responsabilità Sociale delle Imprese – avviso n° 1/2018 “Slow Food in azione: le comunità protagoniste del cambiamento”, ai sensi dell’articolo 72 del codice del Terzo Settore, di cui al decreto legislativo n 117/2017