È risaputo che, nel teatro latino, la maggior parte degli attori che calcavano la scena fossero uomini, anche quando si trattava di interpretare ruoli femminili. L’unica eccezione testimoniata dalle fonti era per gli spettacoli di mimo: in questo caso, infatti, era permesso alle donne di poter esibirsi sul palcoscenico con canti, danze e gesti.
Il genere teatrale del mimo (da distinguere dal genere letterario) tuttavia non fu molto fortunato, dal momento che venne considerato dall’opinione comune del tempo un genere volgare e troppo licenzioso per essere tramandato ai posteri. Le fonti dirette sono, infatti, davvero esigue, mentre quelle indirette il più delle volte sono contrastanti tra loro, tanto che gli studiosi spesso non sanno come interpretarle. Essendo un genere popolare e buffonesco possiamo immaginare che le esibizioni estemporanee, cioè prive di strutture letterarie, si svolgessero per le strade e per le piazze della città ed avessero come protagonisti uomini e donne che imitavano scene di vita quotidiana improvvisate con suoni, gesti e balli.
Il mimo comparve a Roma intorno al III secolo a.C. e si affermò a partire dal 238 a.C., anno in cui vennero istituiti i Ludi Florales, i quali in primo momento si svolsero saltuariamente, poi dal 173 a.C. vennero eseguiti a cadenza annuale per sei giorni: dal 28 Aprile al 3 Maggio. Come ci ricorda Ovidio nei Fasti, i ludi scaenici consistevano in rappresentazioni leggere, licenziose e spesso volgari, le cui protagoniste erano spesso proprio le mime. Queste donne, considerate meretrices in quanto mettevano in mostra il proprio corpo, adorne di ghirlande di fiori e vestite con pepli quasi trasparenti, allietavano il pubblico con danze e spettacoli di spogliarello (nudatio mimarum), con lo scopo di mimare la fertilità in onore della dea Flora, che ne era la protettrice.
Grazie alle attestazioni epigrafiche di tipo funerario databili tra il I secolo a.C e il I secolo d.C. ritrovate a Roma e in altre parti dell’impero, in cui sono presenti i nomi, i ruoli e le età di alcune mime, è possibile affermare che queste donne fossero schiave o liberte molto giovani (tra i 14 e i 20 anni) alcune provenienti dalla Grecia o dall’Asia Minore. Esse potevano esibirsi sia pubblicamente con delle compagnie capeggiate da una archimima, una specie di capocomica che oltre a recitare le dirigeva assegnando parti, sia potevano fare spettacoli singolarmente presso case private di uomini di alto rango. In questo caso si trattava di schiave acquistate in paesi stranieri che venivano educate alla danza e al canto in qualità di intrattenitrici. Riguardo a quest’ultime possediamo anche alcune fonti letterarie che le ricordano come vere e proprie meretrici per il loro carattere immorale e dissoluto e per il loro mestiere di attrici, considerato nella società romana infame.
Tra di loro quella che si è distinta di più è stata sicuramente la mima Volumnia Citeride, la quale in un primo momento fu liberta del cavaliere Publio Volumnio Eutrapelo, che la introdusse come intrattenitrice nei banchetti dell’alta società romana. Durante queste feste Volumnia conobbe Marco Antonio al quale si unì diventando la sua “moglie di riserva”, la mima uxor, accompagnandolo spesso durante le uscite trasportata su di una lettiga, come ci ricorda Cicerone, che non si esime da commenti negativi sulla mima, ad eccezione di quando ella si esibì nella Villa di Vedio Pollione a Posillipo dove recitò cantando egregiamente la sesta Bucolica di Virgilio. In un secondo momento la donna si legò al cesaricida Marco Giunio Bruto e anche al poeta Cornelio Gallo, che le dedicò un suo componimento d’amore, soprannominandola Licoride.
Anche in questo caso, scavando e rovistando tra le fonti è stato possibile descrivere altre figure femminili dell’antichità romana che seppur di ruolo minore non smettono mai di affascinarci.
Caterina Spaterna