“Occorrerebbe rimanere in ascolto. Nel silenzio ci sono tantissime parole”. Al Todi Festival, Francesca Satta Flores dirige “Clausure”, un viaggio introspettivo alla ricerca del proprio io e del benessere interiore in un monastero benedettino.
Saggezza (Paola), paura (Irma) e dubbio (Benedetta): questi i tre elementi complementari che sembravano aleggiare nella splendida Sala delle Pietre di Palazzo del Popolo di Todi, durante la messinscena di “Clausure” spettacolo di Marina Pizzi, con Angiola Baggi, Maria Cristina Fioretti, Eugenia Scotti, per la regia di Francesca Satta Flores. In occasione del Todi Festival, le tre attrici si sono confrontate sul palco andando oltre il significato classico di “clausure” legato al monastero in cui la piéce era ambientata e, in un salendo di emozioni, hanno invece affrontato la chiusura “mentale” di una società cinica e (a volte) superficiale. Società egoista ed egocentrica che non riesce a comprendere la scelta di chi si offre senza riserve e con sacrificio per far provare alle “sorelle” la felicità “dell’essere madre dei figli che accolgono” e che aiutano. Una scelta di spiritualità e di fede profonda che, forse, più che essere un mistero, può rappresentare, in questo caso, un mezzo per una presa di coscienza di sé e dell’accettazione della vita. Magari la propria.
L’equilibrata Paola, donna matura e, non per niente, Badessa del Monastero, riconosce la solitudine inquieta di Irma, architetto senza scrupoli che dalla vendita del monastero vuol tirar fuori un affarone. La donna continua ad arrampicarsi su lucidi specchi pur di raggiungere il suo scopo, senza aver rispetto per nessuno, forse perché proprio da nessuno, anche lei, si sente rispettata. L’ironia, molto velata e non sempre colta forse dal pubblico, è al centro del percorso in cui ci conduce la regista. La Badessa, con voce ferma ma comprensiva e occhi ben più aperti di quel che si possa pensare, metterà a nudo l’anima della donna in carriera e la porterà a scoprire la sua umanità nascosta dietro ai vestiti firmati e alla scia di profumo che non l’abbandona mai, quasi indossasse un “piccolo cappotto immaginario” che la abbraccia e la fa sempre sentire sicura di sé e mai sola. Un “turn of the screw”, per usare l’espressione di Henry James, che risulterà tanto ben congegniato da coinvolgere lo spettatore e fargli quasi toccare con mano il malessere di Irma che, man mano che il tempo avanza e senza mai sentirselo chiedere palesemente, si ritroverà davanti ad un bivio. Scegliere se “specchiarsi” e rendersi conto della propria verità (“Io non voglio essere una foglia secca portata via dall’acqua”) o continuare nella sua (in)sicurezza dell’essere.
Una partita che non ha un arbitro ma che trova nella figura di Benedetta un mediatore che spezza i dialoghi e, forse, a nostro parere, può rappresentare i due aspetti del cammino intrapreso: indecisione (la strada) e sicurezza (il punto di arrivo). Da un lato, infatti, la postulante non solo esprime le proprie incertezze, spaventata dal “per sempre” dei voti ma, fisicamente, durante lo spettacolo, percorrendo la via che porta da una parte all’altra della scena, sembra sempre tentennare nello stesso punto, che potrebbe rappresentare l’invisibile barriera tra la realtà quotidiana di Irma e la scelta di clausura di Paola (indecisione). Dall’altro, quando diventa novizia, Benedetta arriva a superare i suoi dubbi e compie la sua scelta, mostrando la calma e il sorriso della tranquillità di chi sa di aver abbracciato la vita che sente sua (sicurezza).
Come Paola ci insegna: ”E’ lungo il cammino per arrivare ad essere sé stessi ed è lungo il cammino per arrivare ad essere contenti di quello che si è”. Improbabile uscire da un teatro ed arrivare a questo stato di serenità interiore all’improvviso, ma sicuramente il testo di Marina Pizzi è così ben strutturato da mettere in condizione di far ragionare lo spettatore. Questa frase sembra infatti riecheggiare in sala. “Clausure” provoca e sollecita una riflessione sulla vita. In un’esistenza che già risulta essere complessa e difficile, dovremmo guardare dentro noi stessi e provare a comprendere che siamo quello che siamo e che una maschera ben sistemata sul volto non ci cambia poi molto. Se imparassimo ad apprezzare meglio il nostro valore, forse, il cammino di cui parla la Badessa sarebbe più breve.
di Francesca Cecchini