di Giuseppe Manzo
Tra pochi giorni, domenica 27 gennaio, ricorrerà il Giorno della Memoria, la giornata mondiale dedicata al ricordo dell’Olocausto e di tutti gli stermini di massa. Ricordare almeno un giorno all’anno, affinché non si ripeta più nessuna strage in nome dell’ideologia e del razzismo.
L’invito è quello di fermarsi per un giorno a riflettere e a ricordare, soprattutto ai giovani, come una sorta di vaccino contro ogni idea di sopraffazione del diverso, sia egli migrante, ebreo, nero, zingaro, disabile, omosessuale, oppositore politico, tifoso di un’altra squadra, diverso nell’abbigliamento o nello stile di vita.
Il Giorno della Memoria è anche un invito alla tolleranza e al rispetto degli altri, all’accettazione della diversità come arricchimento personale e della realtà che ci circonda. Una giornata da passare con i figli e con i familiari e gli amici, ascoltando i racconti degli anziani, ultimi testimoni e custodi della memoria, o guardando un film sul tema dell’Olocausto. Ma soprattutto informandosi.
Il 27 gennaio 1945, le truppe sovietiche che attraversavano velocemente la Polonia, dirette a Berlino, si trovarono davanti ai cancelli dei campi di Auschwitz, nome tedesco della cittadina polacca di Oswiecim, ormai abbandonati dalle SS, che da giorni avevano cercato di distruggere le prove dello sterminio di 6 milioni di ebrei e poi erano fuggite, non prima di costringere decine di migliaia di deportati, che erano scampati ai forni crematori, ad una marcia forzata di centinaia di chilometri verso i lager situati in Germania.
Furono giustamente chiamate le “marce della morte” quelle nelle quali, per freddo fame fatica e fucilazioni di massa, morirono migliaia di testimoni scomodi dello sterminio pianificato da altri esseri, che avevano dimenticato di essere umani.
Gli sbigottiti soldati russi in Polonia, e poi quelli americani in Germania, che aprirono i cancelli dei campi di concentramento e sterminio, si trovarono di fronte a colline o fosse piene di cadaveri in attesa della cremazione, davanti ai forni ancora fumanti di un odore nauseabondo che per mesi aveva ammorbato ampie zone circostanti fatte di boschi, ma anche di città, nelle quali gli abitanti si erano “girati dall’altra parte” per non sapere, per paura.
A mano a mano che entravano, i soldati incontravano corpi esili, troppo magri, che a stento stavano in piedi, impauriti alla vista dei militari armati, mentre uscivano dai nascondigli dove si erano celati al momento della precipitosa fuga delle SS.
I visi scavati dalla sofferenza e dalla fame, i corpi distrutti dalla fatica e dalle botte e quel lungo numero impresso sul braccio di persone senza più identità e dignità, che non a caso i nazisti chiamavano stuke, ovvero pezzi. Gli occhi grandi sbarrati che non credevano ancora alla fine dell’orrore più grande che l’umanità abbia visto, perpetrato attraverso l’annientamento, la morte qualche volta improvvisa, casuale. Qualche volta invece collettiva, attraverso la doccia di gas e poi la cremazione.
Il piano del nazismo di nascondere l’eccidio non riuscì perché i sovietici e gli americani, in gara tra loro, per la conquista di Berlino, arrivarono prima del previsto. Perché alcuni dei soldati, che avevano il compito di girare documentari e fare articoli per i giornali in patria, filmarono tutto consegnando così alla storia e ai tribunali un’ampia documentazione che ha raggiunto anche noi attraverso la televisione.
“Registrate ora tutte le prove, film, testimoni, perché lungo la strada della storia qualche bastardo si alzerà e dirà che queste cose non sono mai accadute” aveva ordinato il generale Eisenhower, con una formidabile intuizione.
Il mondo deve molto ai giornalisti al seguito delle truppe che raccontarono e ai soldati che filmarono con coraggio quelle immagini, consegnandole così al mondo incredulo. Fu molto importante la decisione presa dal comando anglo americano, come mostra un filmato, di far sfilare i cittadini tedeschi, anch’essi increduli sgomenti e piangenti, in uno di quei campi a Buchenwald, il più grande della Germania, nascosto nei boschi di faggio tanto amati da Goethe.
Le lacrime non bastano davanti a tali scene e per questo abbiamo il dovere di ricordare, come il governo italiano nel 2000 e poi l’ONU nel 2005 hanno stabilito, in maniera tardiva ma efficace, indicando proprio nel 27 gennaio il Giorno della Memoria.
Una delle deportate costrette a marciare mentre i russi arrivavano, che sopravvisse a tutto quell’aberrante orrore, nonostante la morte del padre e la sua giovane età di 15 anni, era Liliana Segre, classe 1930 di Milano. L’imperativo che mantenne in vita lei e tutti i sopravvissuti fu “voglio vivere”, un grido che si levò da tutti i campi di sterminio quando i cancelli si spalancarono.
Da vent’anni e più quella bambina, ormai madre di tre figli e nonna, gira l’Italia e non solo per raccontare una storia che tutti dovremmo conoscere quella dalle leggi razziali italiane del 1938 alla liberazione dei deportati.
Una storia che comincia con l’espulsione dalla scuola a soli 8 anni tra l’indifferenza di troppi italiani, al confine chiuso dagli svizzeri e conseguente arresto da parte dei fascisti, e, ancor più tragicamente, alla deportazione in un carro bestiame dal famigerato binario 21 della stazione di Milano ai campi di concentramento e poi di sterminio di Auschwitz – Birkenau.
Testimone dell’orrore e fortemente impegnata affinchè quell’orrore non torni, Liliana Segre verrà per questo, nel gennaio 2018, chiamata dal saggio Presidente Mattarella su uno degli scanni più rappresentativi d’Italia, quello occupato dai senatori a vita.
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può tornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”. Un pensiero molto attuale quello del nostro grande Primo Levi, del quale quest’anno ricorrerà, il 31 luglio, il centenario della nascita. Sopravvissuto anche lui all’orrore di Auschwitz, aveva voluto già dal dicembre del 1945 e fino al gennaio del 1947, con grande sofferenza, imprimere subito nelle pagine di un libro i drammatici ricordi del periodo trascorso in uno dei campi di sterminio situati presso Auschwitz. Il libro dal titolo “Se questo è un uomo”, diventato presto un classico della letteratura mondiale, contiene una piccola poesia in epigrafe, che rende necessario il dovere di ricordare.
Ricordare e difendere la libertà di espressione, che non è scontata, sono ancora oggi, dopo quasi un secolo, gli antidoti dell’ideologia di sopraffazione e della paura che permettono alle dittature di nascere e vincere, con la complicità degli indifferenti, portando nuovamente l’umanità nel baratro. Mai più!