“La guerra di un soldato: piccole speranze” di Sergio Guarente, dedicato alla memoria della partecipazione dell’Italia della Grande Guerra e dei suoi caduti
Sono ancora qui, su questa terra, aggrappato all’albero della vita, come il protagonista di Moby Dick sopravvissuto all’inabissamento del Pequod, che racconta smarrito la sua storia senza lieto fine, persa nel vortice irrimediabile dell’oceano, immenso “coperchio” dei tumulti umani, richiusi e sigillati, sepolti e occultati dal moto senza posa delle onde. Anch’io mi sento come un naufrago scampato al disastro di questa guerra animata da un furore assassino, che, simile ad una ondata impetuosa e inarrestabile, si è propagata senza argini per l’intero corpo della terra. Quando, nei miei sonni inquieti, sono visitato dai fantasmi della notte, un’immagine ritorna insistente e agghiacciante: un immenso fiume, ormai straripato e senza freni, tutto travolge al suo passaggio e, come l’“Arbia colorata in rosso” evocata nell’Inferno di Dante, è intinto di sangue, il sangue dell’intera umanità piagata dal morbo dell’odio e dell’insensatezza. Allora, nel momento in cui questo incomprimibile fiume di sangue è sul punto di annientarmi senza possibilità di scampo, mi sveglio con gli occhi sbarrati e il cuore in gola, nel mio letto inospitale e senza calore.
Già! Dove sono ora? Non più in una trincea dagli odori mefitici, non più in un campo di battaglia pervaso dal fumo acre rilasciato dai proiettili insinuanti e malefici delle mitragliatrici, non più sotto la volta del cielo con le sue stelle silenti che, inebriate dallo splendore che promanano, si compiacciono come Narciso della loro sfavillante bellezza, senza curarsi del nostro miserevole strazio, della nostra insignificante presenza in un cosmo abitato dall’immenso, che non ci degna di compassione per la nostra piccolezza, ma piuttosto procede imperturbabile nei suoi maestosi ingranaggi senza tempo. Sono tra le pareti slabbrate, tra gli intonaci cadenti di questa grande e buia stanza d’ospedale, circondato dai lamenti strazianti dei miei commilitoni, con il volto sfigurato o gli arti amputati e il loro quotidiano confronto con un dolore privo di requie, di respiro, di pietà.
Perché sono qui? Perché la vita non mi ha sottratto al suo abbraccio e non mi ha consegnato ad una tomba malferma, sotto una croce rudimentale pietosamente apprestata dai miei compagni? Ho un vago ricordo di quanto mi è accaduto: le schegge malvagie di una granata mi avevano colpito e si erano conficcate nella mia carne, senza preannunciarsi, ma solo intrise della loro beffarda e indifferente violenza; e io, dopo lo svenimento per un dolore senza confini, cocente e lacerante, come una lama tagliente e infuocata che squarciasse il misero involucro del mio corpo, avevo per un momento aperto gli occhi, avvertendo la sensazione indicibile di trovarmi sulla soglia sottile che separa la vita dalla morte, ma senza angoscia, anzi quasi con la voluttà di poter sperimentare l’ingresso nel paese inesplorato da cui nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno. Morire, dormire… pensavo in quegli istanti fugaci in cui la mia esistenza terrena si risolveva; come il principe Andrej Bolkonskij in Guerra e Pace, mi sembrava di vedere in una luce nuova il cielo altissimo che mi sovrastava, con la sua maestà altera, con le sue nuvole veleggianti dalle quali faceva capolino l’infinito colorato di azzurro. Poi… poi, più nulla, se non il doloroso risveglio in questo letto d’ospedale: la vita aveva, almeno momentaneamente, prevalso sulla morte, e il mio corpo indifeso e straziato pulsava ancora del desiderio di vivere, di partecipare nuovamente all’avventura irripetibile dell’esistenza.
Ma quale esistenza? Forse dovremmo vivere per glorificare la guerra, “sola igiene del mondo”, come ci ha proposto nel suo Manifesto del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti? Dovremmo ricercare la “bella morte”, impregnati di un militarismo cieco e distruttivo, votati alla prevaricazione feroce dell’uomo sull’uomo? O piuttosto dovremmo rispondere all’appello di Romain Rolland, che ci invita ad abbattere l’odio e l’ingiustizia tra gli individui e i popoli, per edificare la cinta di una città in cui si riuniscano le anime fraterne e libere del mondo intero?
Già, io sono stato “irretito” dalle sirene ammalianti del bellicismo, da un patriottismo esasperato ed esclusivo, quando sono partito da volontario per il fronte, interrompendo i miei adorati studi di filosofia. E lì, in trincea, tra l’intrecciarsi convulso dei dialetti di noi soldati, provenienti da ogni parte d’Italia, nell’angoscia e nello stridore di una vita spogliata della sua bellezza e della sua dignità, ho assaporato il bisogno di una vera e propria rinascita spirituale, che spazzasse via le incrostazioni e gli infingimenti dei falsi miti, delle irresponsabili pulsioni per il contingente e l’effimero, per una gloria vuota e inconsistente, destinata a germogliare solo sul concime avariato della violenza e del disprezzo. Ho compreso, allora, che, se il dolore è ineliminabile dal nostro orizzonte vitale, tuttavia può essere lenito dalla consapevolezza del nostro cammino comune, che non richiede la vertigine gelida e fallace della protervia e dell’arroganza, ma il caldo e accogliente respiro del riconoscimento dell’umanità che vive in ciascuno di noi, insofferente delle barriere e dei pregiudizi, degli steccati e dei risentimenti. La vita, la mia vita ha bisogno di “occhi nuovi”, che mi permettano di gettare uno sguardo puro e trasparente sugli altri e sul mondo, sentendo il fiato degli esseri umani confuso con il mio, per vivere e morire assieme in questo mondo imperfetto ma animato dal fervore e dallo slancio di quella fragilissima e al tempo stesso portentosa canna pensante che è l’Uomo, come aveva mirabilmente compreso il mio amato Pascal. Per questo, forse, la vita mi circonda ancora delle sue premure, e non mi ha lasciato alle gelide spire della morte, perché potessi ritrovare nel volto degli altri la grandezza del pensiero e della volontà di amare di cui siamo dotati. Ricordo, riandando ai miei studi di filosofia greca, la profonda impressione in me suscitata dalla dottrina di Empedocle, che pone alla base della vicenda dell’universo le due forze cosmiche dell’Amore e dell’Odio, che si contendono la supremazia e danno vita alternativamente a cicli caratterizzati dalla prevalenza dell’armonia e dell’unione o invece del caos e della divisione. E allora, per noi uomini, unirci o confederarci significherebbe poter contrastare l’impulso distruttivo che ha preso il sopravvento in questo tempo storico ansimante e angosciato; ho appreso con sollievo che il presidente americano Wilson ha proposto la nascita di una Società delle Nazioni, il germe, forse, di un futuro governo mondiale, in cui tutti gli uomini possano finalmente riconoscersi e ritrovare il sentimento della solidarietà di destino che li unisce.
Ma non voglio abbandonarmi alle grandi speranze, ora voglio soltanto dedicarmi alle piccole speranze: due giorni fa, il generale Diaz ha proclamato la vittoria dell’Italia e gli Imperi centrali sono sul punto di capitolare; la mia gamba martoriata probabilmente si salverà e le mie inquietudini affannate, i miei sonni agitati, i miei ricordi straziati si disporranno ad accogliere le lievi speranze della mite primavera, che subentrerà al triste inverno della natura e dell’anima, quando le nevi si scioglieranno e i torrenti torneranno a scorrere con la loro acqua cristallina, e io proverò a correre di nuovo sui prati in fiore, con i capelli scompigliati dall’alito benevolo del vento, chiedendo fiducioso alla mia anima dolente di pacificarsi con sé stessa e con il mondo…