Il Monastero della Santa Croce di Fonte Avellana, nella provincia di Pesaro e Urbino, è una struttura molto imponente, risultato di una serie numerosa di ampliamenti, sulle pendici del monte Catria.
Il Monastero della Santa Croce di Fonte Avellana fu fondato intorno al 980 dai primi seguaci di Romualdo di Ravenna, come numerose altre realtà fondate da lui o dai suoi seguaci tra le attuali Marche e l’attuale Umbria; Fonte Avellana si trova infatti proprio sull’antico tracciato della via Romualdina delle Marche.
Romualdo era un monaco camaldolese, iniziatore di un movimento radicale di riforma che riportava in vita, all’interno della tradizione benedettina, lo spirito primitivo del monachesimo in un’età dove le Abbazie stavano diventando sempre più centri di potere. Questo stesso progetto porterà avanti l’erede di Romualdo, Pier Damiani, grande abate del secolo XI, rappresentato nella statua bronzea all’entrata.
A lui dobbiamo la costruzione di questi edifici e lo Scriptorium che porta il suo nome. Lo scrittorio è stato concepito per sfruttare la maggior quantità di luce possibile, che veniva regolata e filtrata da lastre di alabastro con le quali sono realizzate le finestre, al fine di garantire l’assenza di ombre e riflessi. Lo scrittorio, inoltre, funzionava da orologio astronomico: le monofore in alto presentano delle lastre di alabastro di pochi centimetri con piccoli fori posizionati sulla base di calcoli astronomici relativi al cammino del sole. I raggi, filtrando attraverso i fori, indicavano l’ora esatta per la preghiera, per le lodi e per i vespri ed anche il calendario liturgico, dato che i raggi solari colpivano punti diversi a seconda delle stagioni.
Il primo insediamento, nello spirito di Romualdo, era costituito da edifici separati, ora accorpati. Secondo alcuni studiosi, lo Scriptorium era esistente già negli anni di Romualdo. Forse si trattò originariamente del progetto di costruzione di una chiesa, date le dimensioni, la pianta molto allungata e lo sviluppo in altezza delle mura, caratteristiche tipiche delle chiese romaniche molto diffuse nelle Marche. Spazio poi dedicato allo scrittorio, per l’esigenza di trovare uno spazio adeguato per le operazioni di realizzazione degli incunaboli, quali la concia delle pelli di pecora e di capra per le pergamene, la lavorazione di inchiostri, colori, lamine per la decorazione.
La destinazione dei manoscritti era duplice: lo scambio con altri scriptoria (Fonte Avellana aveva rapporti culturali con Monte Cassino, Pomposa, Bobbio), e l’arricchimento della biblioteca: in questo secondo caso i manoscritti venivano trasferiti al piano superiore da una scalinata non più presente.
La biblioteca, riservata ed accessibile solo per motivi di studio, custodisce, nonostante le gravissime perdite, circa 31000 volumi: dall’invenzione della stampa al 1950, purtroppo, la ricchissima collezione di manoscritti, completamente stravolta già a partire dal XIV secolo, si trova dislocata nelle più importanti biblioteche italiane ma, soprattutto, in quella vaticana, dove sono custoditi i codici più preziosi.
La collezione presente in Vaticano fu fortemente voluta da papa Giulio II il quale era stato, quando era ancora cardinale alla fine del XV secolo, abate commendatario di Fonte Avellana. La commenda governò il monastero dal 1392 al 1569, tale istituto giuridico permetteva al Papa di nominare direttamente l’abate. Tale diritto, nel caso di alcuni papi, fu uno strumento funesto che causò la crisi economica, sociale, etica e politica di molte comunità, conducendo molte di queste alla loro scomparsa.
I libri conservati nella biblioteca contemporanea, dedicata a Dante Alighieri, sono recenti: circa 7000 volumi dal 1950 ad oggi. La biblioteca è nata all’interno di un ambiente risalente ai primi decenni del secolo XI utilizzato come foresteria (termine benedettino Ospitium, per definire il ricovero di viandanti e pellegrini), argomento, quello dell’ospitalità nelle sue varie forme, al quale San Benedetto dedica un intero capitolo della sua regola.
La posizione dell’Ospitium è importante, è l’ambiente più esterno rispetto a quello che era, anticamente, il recinto della clausura: accedendo in un piccolo chiostro i pellegrini avevano la possibilità di arrivare anche di notte senza sconvolgere il ritmo di vita della comunità monastica.
L’ospitium diventava nel 1965, in occasione dei festeggiamenti dei 700 anni dalla nascita di Dante l’attuale biblioteca, sulla cui facciata, per volere della comunità, sono leggibili le due terzine del 21 canto del paradiso:
Tra duo liti d’Italia surgon sassi,
E non molto distanti alla tua patria,
Tanto che i tuoni assai suonan più bassi:
E fanno un gibbo che si chiama Catria,
Di sotto al quale è consecrato un ermo,
Che suol esser disposto a sola làtria
La questione della presenza di Dante a Fonte Avellana è ancora controversa perché, in 500 anni di ricerche e convegni, non sono mai emerse delle prove. Nonostante questo, il 98% degli studiosi che si occupa di questo ipotetico soggiorno, sono convinti che, dietro la descrizione dantesca, ci sia una testimonianza oculare.
Tre sono gli elementi che hanno contribuito alla costruzione di questa ipotesi: la descrizione stessa, il fatto che attraverso le parole di Pier Damiani in quel passaggio e in molti altri della Divina Commedia venga ricostruito il luogo in cui Fonte Avellana sorge, oltre all’interesse che Dante mostrò verso la storia della sua comunità, le abitudini dei monaci, i testi di San Pier Damiani, del suo pensiero. Probabilmente fu proprio questo interesse a condurre in quei luoghi il sommo poeta, ipotesi confortata anche dalla circostanza biografica che lo vuole a Gubbio (che dista soli 30 km) per diverse volte, per soggiorni anche piuttosto lunghi tra il 1310 e il 1318.
Durante gli anni di San Pier Damiani fu eretto il chiostro, nonostante fosse antitetico al concetto di eremo perché punto di incontro dei monaci, i quali, tutti convenuti nello Statio, iniziavano il canto dei salmi per poi proseguire in processione per riunirsi in preghiera.
Il chiostro è estremamente interessante anche dal punto di vista architettonico: gli archi si alternano alle volte a crociera tipicamente romaniche, progressivamente abbassati e ristretti nelle loro basi producendo un effetto cunicolare, prospettico, portando lo sguardo verso le due tombe presenti nella parete chiusa; notevole il contrasto studiato tra l’arco a tutto sesto, tipico dell’architettura romanica, e simbolo dell’occidente del cenobio benedettino e l’arco leggermente più acuto, basso, massiccio, pesante, derivato dall’architettura di Gerusalemme, della Terra Santa, dell’Egitto, della Siria, dell’oriente cristiano, luoghi dove sono radicate le esperienze monastiche dell’eremitismo, in accordo al concetto di monachesimo di Romualdo.
Dopo la parentesi critica vissuta con l’avvento degli abati commendatari, Fonte Avellana passò, il 10 dicembre del 1569 con la Bolla di Pio V, alla congregazione Camaldolese. Fu questo papa, dopo il Concilio di Trento, a cedere Fonte Avellana al governo di Camaldoli, come testimonia lo stemma Camaldolese con i due uccelli che bevono dallo stesso calice che rappresentano l’unione tra eremo e cenobio.
Un altro stemma, appartenuto alla congregazione dei monaci Avellaniti fondata da San Pier Damiani, che garantirono a Fonte Avellana per 500 anni circa la dignità giuridica di casa madre, è lo stemma che in qualche modo condensa l’identità di questo luogo montano: la fonte, con l’acqua che sgorga dal mascherone è la sorgente d’acqua presso la quale il monastero è nato, e la nocciola, di cui il bosco è ricchissimo.
Nella sala capitolare, della prima metà del secolo XII, le caratteristiche dell’ambiente romanico tipico restano immutate: la pianta rettangolare e la copertura voltata a botte, che in questo caso avvolge l’intera lunghezza. Questo favorisce un’eccezionale diffusione della voce, un’acustica quasi perfetta in un ambiente in cui la voce è fondamentale: questa era la sede del governo, delle assemblee quotidiane convocate all’alba per amministrare la giornata ed assegnare i compiti, alla sera per il resoconto delle attività quotidiane, e delle sedute straordinarie: per l’elezione dell’abate, il voto per l’ammissione dei novizi, una sorta di parlamento arredato con degli stalli lignei di grande pregio nel perimetro, ed un leggio alto con il piano inclinato usato ogni mattina dall’abate: si chiama sala del Capitolo per la consuetudine di leggere in apertura dell’assemblea un capitolo della regola di Benedetto.
Anche questo luogo è stato gravemente danneggiato a causa delle traversie che attraversò l’eremo nel corso della sua storia. Le finestre per fortuna sono rimaste nelle dimensioni originali, le piccole feritoie, immagine evidente della Santa Trinità, si trovano tutte e solo ad est, perché il sole che nasce, e la luce che squarcia le tenebre è simbolo della luce del Cristo che risorge; è per questo che l’assemblea monastica e la preghiera iniziavano all’alba, ed è per questo che la sala capitolare e la chiesa sono una accanto all’altra, come nella maggior parte dei monasteri Benedettini.
Entrando nella chiesa la prima cosa che si percepisce è il cambiamento della temperatura: 17 gradi, che d’inverno sono alquanto piacevoli, in una zona fredda come quella dove si trova Fonte Avellana. La costruzione ha delle mura enormi, un metro e trenta di larghezza verso l’esterno, e la parte nord scavata nella roccia, soprattutto per ragioni di staticità, a causa del rischio sismico, e per protezione dal freddo.
Altra particolarità è la forma della chiesa, che è la parte più antica dell’edificio: nata, come la stragrande maggioranza delle chiese romaniche di queste terre, con la pianta a croce latina, nel 1171 per costruire una chiesa più grande, una nuova chiesa, venne innalzato un muro che spezzò la forma a croce. Tranne il pavimento, rifatto alcuni anni fa, tutto qui è originale: finestre, archi, volte, pareti l’altare stesso, che è la tipica espressione della semplicità romanica: basamento, mensa, e le cinque colonne che rappresentano i quattro evangelisti ed il Cristo posto al centro.
Giulio Pocecco e Benedetta Tintillini
Si ringrazia l’Associazione Culturale Matavitatau
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