Mettiamo in chiaro una cosa: per tutti coloro che volessero, nel 13° album in studio di Ozzy Osbourne, ritrovare le atmosfere che hanno caratterizzato i suoi capolavori del passato, rimarrà fortemente deluso: sia per quanto riguarda le sonorità sia per quanto riguarda la filosofia che c’è dietro questo progetto.
In quasi tutti i brani troviamo un illustre ospite della scena rock internazionale, e il primo pezzo “Patient number 9”, vede alla chitarra nientemeno che Jeff Beck. Il brano, anche se piacevole, di certo non rimarrà impresso nell’olimpo della musica e le parti migliori restano sicuramente le frasi e gli arpeggi del già citato Beck.
Con “Immortal” si vira su un territorio decisamente Grunge, non a caso alla chitarra troviamo Mike McCready (Pearl Jam).
“Parasite” è il primo dei molti brani in cui compare alla sei corde Zack Wylde, già suo chitarrista in passato e dove si percepisce, per la prima volta, lo stile che siamo abituati a sentire nel repertorio di Ozzy, anche grazie sicuramente all’apporto di Wylde.
Interessante è “One of those days”, nel quale il featuring vede la partecipazione di Eric Clapton, una leggenda vivente che, con il suo Woman Tone, mette quasi in ombra “Madman”. Oltre a Zack Wylde, un altro grande ritorno è quello di Tony Iommi, chitarrista con cui Ozzy ha fondato i Black Sabbath; con “No escape from Now” sembra di ascoltare proprio un pezzo della band britannica: la voce e i riff scuri di Iommi rimandano subito a quello stile.
Ancora Jeff Beck nella ballad “A Thousand Shades”: è questo tipo di brani che Ozzy Osbourne si esalta e dà il meglio di sé.
I tre pezzi che seguono: “Mr Darkness”, “Nothing Feels Like” e “Evil Shuffle”, tutti scritti da Zack Wylde, ricordano i primi lavori di Ozzy, ma lo spirito commerciale che aleggia su tutta la produzione, basta guardare il curriculum del produttore del disco Andrew Watt e di Ali Tamposi, che ha scritto i testi, non li valorizza, risultando decisamente sottotono. A chiudere l’album “Degradation rule”, ancora con Tony Iommi e ancora la ricetta Black Sabbath che, nel dubbio, funziona sempre.
Purtroppo “Patient Number 9”, rispetto ai predecessori, è un album con poca personalità, forse a causa anche del fatto che ogni brano è stato scritto da musicisti diversi.
Un disco tutto sommato divertente, ma che non riesce a ritagliarsi un posto nel cuore degli appassionati, anche per la natura più pop della produzione.
Giulio Pocecco