Grande successo di pubblico per la proiezione dell’ultima fatica di Paolo Genovese “Il primo giorno della mia vita”, avvenuta lo scorso 19 febbraio presso la sala del Nido dell’Aquila, a Todi, alla presenza del regista e con un video messaggio di saluto di Vittoria Puccini, parte del cast. L’evento è stato realizzato in collaborazione con l’Umbria Film Commission di cui Genovese è presidente.
Intervistato dal collega Michele Bellucci, il regista romano racconta la genesi complicata del film tra le difficoltà logistiche in tempo di pandemia, che hanno costretto la troupe a girare a Roma piuttosto che a New York, come originariamente doveva essere, e l’arduo approccio ad una tema tanto difficile quanto sfuggente come la spinta verso il suicidio.
Per chi, come me, ha sempre avuto la spinta, anche nei momenti peggiori, ad aggrapparsi disperatamente alla vita, difficile è comprendere come si possa, seppur colpiti dalla durezza della vita, pensare di togliersela deliberatamente, condannando un corpo sano alla morte quando tanti, come me, hanno visto svanire il significato della parola salute, barcamenandosi giorno per giorno in un disperato equilibrio precario. Il suicidio, ritengo personalmente, sia anche un atto egoistico, che non tiene conto delle relazioni e degli affetti e delle ripercussioni sulle vite di chi ci è accanto.
Genovese ha raccontato di essere stato ispirato da un documentario girato nel corso di un anno sul Golden Gate Bridge di San Francisco, tristemente famoso per l’alto numero di suicidi. Sette secondi dura il volo verso la morte: i superstiti al “tuffo” hanno raccontato di essersi pentiti del gesto proprio durante quei sette secondi. Da qui parte il film che, con la relatività dello spazio e del tempo, tramuta i sette secondi in sette giorni durante quali, gli aspiranti suicidi, possono tornare sui loro passi e tornare a vivere.
Una Roma spesso riconoscibile lascia il passo ad inquadrature che ricordano molto da vicino la desolazione ed il vuoto esistenziale delle tele di Edward Hopper mentre, per l’approccio al tema, il pensiero corre subito all’indimenticabile “La vita è meravigliosa”. Il film non è comunque coinvolgente e non credo riesca a coinvolgere emotivamente lo spettatore e provocare in lui nuove riflessioni, neanche quelli che, come me, ogni giorno lavorano sulla loro emotività ed il loro equilibrio; la pellicola si riscatta nel finale nonostante una svista della regia (se ho notato bene): due bicchierini di caffè che cadono sul marciapiede dalle mani di Giorgio Tirabassi in piano medio scompaiono nella scena seguente ripresa dall’alto (forse è stata riutilizzata la stessa scena già vista in precedenza).
In conclusione, io sono d’accordo con La Fontaine: “È la morte un gran rimedio a chi è stanco di soffrir. Sarà ver, ma piace agli uomini più soffrire che morir”.
Benedetta Tintillini