La memoria è il patrimonio sul quale costruire il futuro dei nostri figli. La memoria ci aiuta a evitare che il passato possa ripetersi, hanno sostenuto molti superstiti della Shoah.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nominando senatrice a vita Liliana Segre, una delle poche sopravvissute italiane dei campi di sterminio nazisti, volle sottolineare il dovere della memoria e ricordare che le leggi razziali sono una macchia indelebile.
Il dovere della memoria spinse il generale statunitense Eisenhower, che giunto presso i campi di concentramento aveva visto con sgomento quell’orrore, a ordinare che fosse scattato il maggior numero di fotografie possibile alle fosse comuni, dove giacevano ossa, abiti, corpi scomposti, scheletrici, ammassati come piramidi casuali. Fotografie che furono scattate a ogni gelida baracca, al filo spinato, ai forni crematori, alle divise, alle torri di controllo, alle armi, agli strumenti di tortura. Poi il generale statunitense pretese che fossero condotti presso i campi tutti gli abitanti tedeschi delle città vicine, affinchè vedessero con i propri occhi quella tragica realtà. E poi spiegò: “Che si abbia il massimo della documentazione possibile con registrazioni filmate, fotografie e testimonianze, perché arriverà un giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai successo”.
Le testimonianze dirette, i filmati e le foto, aiutano a rievocare la memoria dei fatti storici. A tale proposito grande è il ruolo del cinema che ha rappresentato la Shoah ricostruendo in modo puntuale luoghi e situazioni, aiutando così le persone a conservare la memoria di avvenimenti che non possono essere dimenticati, anche se non sono stati vissuti direttamente.
Di recente un film ha raccontato la storia del fotoreporter spagnolo e partigiano antifranchista, Francisco Boix, che, dopo essere stato catturato dai tedeschi nel 1941 in Francia, fu deportato al campo di Mauthausen, dove rimase per quattro anni fino all‘arrivo degli americani. La sua competenza fu utilizzata dalle SS che lo impiegarono nel campo come fotografo e tecnico di laboratorio. Gli fu ordinato di fotografare le scene di vita quotidiana e le uccisioni dei prigionieri, nel suo campo e in quello vicino di Gusen. Fu così che gli riuscì d’immortalare anche le visite dei gerarchi più in vista del regime nazista, tra i quali lo stesso Himmler. Inoltre come tecnico del laboratorio fotografico ebbe accesso a foto e filmati che testimoniavano ogni sorta di violenza e di assassinii compiuti nei campi. Boix comprese il grande valore documentale di quelle immagini e, rischiando la vita assieme ai compagni spagnoli presenti nel campo, copiò e nascose un grande numero di foto e di filmati, circa duemila. Tristemente celebre la foto del 1942 di un’orchestrina, costituita dai deportati per ordine dei nazisti, che accompagnava un altro deportato, condannato all’impiccagione, verso il patibolo. Quando gli americani varcarono i cancelli di Mauthausen e Gusen, furono immortalati da Francisco Boix, il quale mostrò agli increduli liberatori foto di deportati che si lanciavano contro la recinzione di filo spinato elettrificata per porre fine alle sofferenze, alla fame e al freddo. Dopo la guerra il fotografo catalano fu invitato dagli americani a produrre le foto e i filmati sottratti al campo, che divennero prove inconfutabili nei processi di Norimberga e di Dachau contro alcuni criminali nazisti.
Oggi, per promuovere la memoria di quei tragici avvenimenti, le fotografie di Francisco Boix su Mauthausen e Gusen sono esposte presso istituzioni e musei in tutto il mondo. Grazie a lui conosciamo qualcosa in più dell’orrore dei lager nazisti.
Il 27 gennaio di ogni anno si celebra in tutt’Italia e in molti paesi il “Giorno della Memoria”. Nell’anno 2000 il nostro paese lo fissò simbolicamente nel giorno in cui, nel 1945, erano stati abbattuti i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Un momento dedicato al ricordo della Shoah, lo sterminio del popolo ebraico: uno dei momenti più neri della storia dell’uomo. Una giornata per ricordare che durante la seconda guerra mondiale, milioni di uomini, donne e bambini furono perseguitati in nome delle leggi razziali: strappati alla loro vita, deportati nei lager, sterminati con il gas. Tra questi, solo pochissimi fecero ritorno a casa. Non possiamo parlare di memoria senza parlare dei campi di concentramento. Tra il 1933 e il 1945, scrive il giornalista Valter Vecellio, che ringrazio, i nazisti costruirono circa ventimila campi di concentramento: in alcuni, le vittime erano impiegate nei lavori forzati; altri campi erano di transito. Poi c’erano quelli costruiti per l’eliminazione di massa. I nazisti e i loro complici assassinarono milioni di persone nei campi di sterminio. Per portare a compimento la cosiddetta “soluzione finale” essi realizzarono numerosi lager in Polonia, il paese con il più alto numero di cittadini ebrei. Il primo fu quello di Chelmno, aperto nel dicembre del 1941. Qui gli ebrei e i rom furono sterminati con il gas di scarico all’interno di furgoni appositamente modificati. Nel 1942 entrarono in funzione i “campi” di Belzec, Sobidor, Treblinka. I nazisti, continua Vecellio, concepirono e fabbricarono poi le camere a gas per rendere più veloce ed efficiente lo sterminio. Ad Auschwitz-Birkenau lavorarono ininterrottamente quattro enormi camere a gas, ogni giorno vi venivano uccisi seimila ebrei.
Dachau, Auschwitz, Birkenau: nomi che vorremmo dimenticare. Simboli dell’orrore infinito che proprio per questo dovrebbe essere inciso nella nostra memoria. “Le azioni erano mostruose”, annotò la giornalista e storica di origini tedesche Hannah Arendt, mentre seguiva il processo Eichmann, “ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso”. E anche questa “normalità”, fa parte dell’orrore.
A questo serve il Giorno della Memoria, prosegue Valter Vecellio. E’ ricordare, non dimenticare questa terribile storia; non accettare questa “normalità” che tanti, allora accettarono. Mai nella storia dell’umanità si è progettato, con freddezza e determinazione, lo sterminio di un popolo. Mai si è pianificata l’eliminazione di milioni di persone, studiando e cercando le formule dei gas più “efficaci”, progettando i ghetti nelle città occupate, costruendo i lager, predisponendo la complessa rete dei trasporti. Un orrore fatto sistema. Questa la differenza con le altre carneficine che la storia ci ricorda.
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, furono le parole di Primo Levi, che sono un monito. Il dramma della Shoah non deve essere dimenticato, ma deve essere narrato alle nuove generazioni. Ecco perché il dovere della memoria; ecco perché un giorno dedicato alla memoria: “quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”, parole indelebili quelle dello scrittore e filosofo spagnolo George Santayana. Enormi e imperdonabili furono le colpe di quanti collaborarono o scelsero il silenzio. Eroiche le azioni, spesso rimaste sconosciute, di quanti rischiarono la vita per salvare gli ebrei dalle deportazioni, conclude Valter Vecellio.
Accanto al termine memoria dobbiamo condividere quello dei luoghi della memoria. Lapidi, musei, monumenti, cippi e cimiteri raccontano, infatti, i luoghi dove i fatti storici sono avvenuti. Luoghi che stimolano ricordi e provocano emozioni che si rinnovano nella memoria collettiva. E’ la memoria trasmessa dai testimoni, fino al termine della loro vita, a quelli che non vissero gli avvenimenti, ma sentono la necessità e la volontà di tramandare tali ricordi, affinchè i fatti storici che hanno caratterizzato la vita della collettività non vengano dimenticati. E’ l’oblio il nemico della storia, guai a sottovalutare l’importanza dell’insegnamento della storia. Cosa saremmo noi italiani senza la storia delle nostre origini e delle nostre tradizioni, senza il racconto degli accadimenti dal Risorgimento alla Resistenza, con i successi e le sconfitte, che ci hanno permesso di chiamarci popolo, di sentirci nazione e di esserne degni davanti agli altri popoli del mondo. In particolare, la memoria come dovere e monito nasce in Europa e nel mondo, dopo qualche decennio dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo un periodo nel quale forse il bisogno più forte delle persone era stato quello di dimenticare, per andare avanti e superare lo shock.
Il dovere della memoria nasce quando si comprende l’importanza di ricordare per far sì che l’aberrante genocidio di milioni di persone, compiuto dal nazismo, non possa più ripetersi, come i superstiti della Shoah hanno ricordato per decenni senza stancarsi, fino alla fine dei loro giorni. “Mancavo da 60 anni a Birkenau”, racconta uno degli ultimi testimoni, Sami Modiano, “mi ricordavo ogni passo che facevo. Rivivevo tutte le scene che avevo già vissuto. Avevo le lacrime agli occhi. Ma la mia grande sorpresa fu che anche i ragazzi piangevano. Allora ho capito che ero stato scelto perché i ragazzi hanno bisogno di me. Da quel momento in poi non mi sono fermato: io da quel posto di morte, non ne sono mai uscito, io sono ancora lì. E’ qualcosa che rimane e che non puoi cancellare. Fin quando Dio mi darà la forza, cercherò di far capire alle nuove generazioni che questo è successo: la storia deve continuare, non si deve fermare. Questa è la mia missione. Sono l’uomo più felice del mondo adesso e sono sicuro che qualcosa, di quello che ho vissuto, arriva ai ragazzi che mi ascoltano”. La missione di Sami Modiano e degli altri superstiti è stata, ed è, quella di non far dimenticare quell’orrore. Per questo hanno vissuto, anno dopo anno, raccontando ai giovani la tragedia della loro vita di ex deportati, di quella dei familiari e degli amici che non tornarono, dal giorno delle leggi razziali al viaggio forzato verso i campi di sterminio. Fino al giorno della liberazione, un giorno straordinario per il mondo intero che non pareva essere reale quando arrivò, vissuto da Sami Modiano assieme ad altri grandi protagonisti del racconto della Shoah, Primo Levi e Piero Terracina. Tra gli ex deportati che hanno consumato le scarpe in giro per l’Italia, testimoni militanti, c’è la senatrice Liliana Segre, nata a Milano nel 1930, sposata e madre di tre figli, sopravvissuta all’orrore di Auschwitz.
Quando il 19 gennaio del 2018 s’insediò in Parlamento, aprì il suo discorso dicendo: “Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno d’ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”. Era stata scelta come senatrice a vita dal Presidente Mattarella, quale testimone del più grande eccidio pianificato che la storia ricordi. L’assassinio di ebrei, zingari, disabili, omosessuali e oppositori politici, in una parola i diversi, perpetrato dai nazisti e condiviso dai loro alleati. “L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa” ha sostenuto la senatrice Segre “È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo”. Per Liliana Segre colui che salva una sola vita salva il mondo intero, frase tratta dal Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, resa celebre in tutto il mondo dal film capolavoro Schindler’s list.
La memoria è l’antidoto contro il ritorno delle dittature. Tra i testimoni della Shoah c’è Piero Terracina, classe 1928, romano di Trastevere, uno dei primi in Italia a decidere di raccontare la sua dolorosa esperienza di deportato. Al rientro in Italia da Auschwitz, tacque, perché, come i suoi compagni di sventura, temeva di non essere creduto. L’orrore da raccontare era così grande e il ricordo così straziante che le persone stentavano a credergli. Qualcuno, racconta Terracina, mostrava un senso di fastidio. Nell’autunno del 1938, a causa delle leggi razziali, Piero, come tutti gli alunni e i docenti ebrei, fu espulso dalla scuola pubblica e proseguì gli studi nelle scuole ebraiche. Sfuggì al rastrellamento del Ghetto il 16 ottobre 1943, ma venne arrestato il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia e detenuto nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Infine il 17 maggio del 1944 fu deportato.
Memoria leggiamo il suo racconto: “Dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, a 26 km da Modena, ci misero in 64 in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz. Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratelli, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono e ci tagliarono i capelli. Ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono usciti da lì. Ad Auschwitz il prigioniero non aveva nome, gli internati non erano contati come persone ma come pezzi. Ai prigionieri veniva tolta ogni dignità. Di quelli usciti dal campo vivi, pochissimi sono riusciti a sopravvivere, e a tornare a essere persone degne di essere chiamate tali. L’efficiente macchina bellica tedesca, non sprecava nulla. Anche dopo la morte tutto veniva usato e riciclato, anche la pelle e i capelli dei deportati. Quando fummo liberati, pesavo 38 chili. Io camminavo, ma erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po’ crollai e fui portato dai russi in un ospedale militare. In seguito mi trasferirono all’ospedale di Leopoli. Lì ripresi a piangere e fui consapevole di quello che era stato perpetrato da persone normali ai nostri danni. Dopo qualche tempo fui mandato in un sanatorio nel mar Nero. Lì ripresi ad avere amicizie, lì sono nati alcuni affetti come quell’infermiera che mi curò. Sono rientrato in Italia dopo un anno. Fu in Unione Sovietica che ripresi a vivere… ricordo ancora oggi la mia prima partita a pallone. Gli artefici della mia resurrezione sono stati gli amici, senza di loro non so se ce l’avrei fatta… Con loro e con i miei parenti per molti anni non ho parlato di quello che mi era accaduto. Temevo soprattutto che mi chiedessero come mi ero salvato. Mi terrorizzava il fatto che qualcuno potesse chiedermi “Perché tu ti sei salvato e mio figlio o mio marito no?”. Poi pensavo che se avessi parlato di certe cose a molta gente avrebbe dato fastidio, o quantomeno qualcuno avrebbe pensato: “Che va dicendo, non è possibile.”; inoltre raccontare del lager avrebbe significato in parte rivivere quelle situazioni ed io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico “essere” ma almeno “sembrare”. E così è andata: di giorno cercavo di fare una vita più normale possibile e di notte molto spesso mi ritrovavo a fare i conti con il mio passato nel lager. Sognavo continuamente di Auschwitz, era una specie di doppia vita. La Shoah non è solo colpa della Germania. Anche altri governi furono carnefici di questo male. Il governo francese dopo l’armistizio consegnò tanti ebrei ai nazisti. Eppure in altri paesi come la Danimarca questo non successe. Il Re si oppose alla deportazione. Si mise anche lui la stella che contrassegnava gli ebrei, fece pressioni sul popolo e questo bloccò la deportazione degli ebrei danesi. Perché questo in Italia non accadde? Anche in Bulgaria gli ebrei furono salvati dallo sterminio. Perché questo in Italia non accadde? Se qualcuno che poteva si fosse opposto non ci sarebbe stata nessuna deportazione. In Italia gli ebrei sono presenti da circa 2.300 anni. Eppure questa civiltà fu negata”, conclude Terracina, “agli ebrei era vietato non solo avere ma anche essere”. “Considerate se questo è un uomo voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici”, scrisse Primo Levi.
(dal libro di Giuseppe Manzo “I Giovani e la Memoria” per gentile concessione dell’autore e di Fubambolo Edizioni)