Una sorta di “candid camera”. E’ attraverso un occhio segreto e privilegiato che Massimiliano Burini, il regista dello spettacolo “Alice Dragstore”, andato in scena lo scorso 20 Febbraio a Perugia al Teatro Brecht, ci narra la sua esperienza a contatto con l’universo parallelo delle Drag Queen.
Come la maggior parte delle telecamere segrete, è attraverso un ideale specchio del camerino, rappresentato dal boccascena, che il pubblico entra nelle dinamiche delle cinque co-protagoniste, volontariamente ingoiate dall’angusto spazio che le reclude e le costringe ad una forzata convivenza, ma che, al tempo stesso, le protegge dalla durezza del mondo esterno.
Daniele Aureli è “Bunny Bell”, svitata Drag dall’accento umbro, dall’animo dolce e accomodante, Stefano Cristofani è “Caterpillar” dandy e apparentemente sicuro di sé, Amedeo Carlo Capitanelli è “The Queen” Drag ormai passata, figura malinconica, in bilico tra ciò che si è rifiutata di essere e ciò che non è più, Riccardo Toccacielo è “Mad Pussy”, perfida e permalosa, e Matteo Svolacchia è la nuova arrivata, “Alice”.
Come nel racconto di Carrol, “Alice” entra in un mondo fantastico e conosce i personaggi che lo popolano, si scontra con le loro differenze e si riconosce nei caratteri affini; noi la seguiamo lungo il suo percorso di mutamento e trasformazione fino all’assunzione della sua nuova identità.
Molteplici sono le tematiche individuabili in “alice Dragstore”: da quelle di estrema attualità come la parità di genere, sia come accettazione del “diverso”, anche se, probabilmente, gli omosessuali che scelgono di essere Drag, scelgono di bypassare questo tipo di problemi attraverso la faticosa costruzione di un personaggio, che finisce per essere una nuova identità in una realtà parallela; sia come l’affermazione della parità tra uomo e donna, in una civiltà “evoluta” come la nostra dove è ancora tanto difficile essere rispettate come donne, figuriamoci quanto può essere arduo scegliere di rappresentare la sublimazione dell’universo femminile.
Di particolare fascino, a mio avviso, le tematiche pirandelliane legate alla molteplicità dell’essere, all’impossibilità di trovare la propria compiutezza in una sola verità e quindi in una sola identità, qualunque essa sia. Ognuno di noi è infinite cose, e la dimensione triste e malinconica che ognuno dei personaggi accusa ed esorcizza, è legata, a mio avviso, a voler essere una cosa sola, e quella soltanto.
Le Drag Queen, in una scelta di vita estrema, come in una sorta di “Legione Straniera”, cancellano, o tentano di cancellare, la propria identità passata, tanto che i nomi veri sono ritenuti tabù fuori e dentro la vita di scena, a favore di una nuova identità forte ed eccessiva… ma dal profondo non può non riemergere ciò che si era, in un equilibrio perennemente precario, in una lotta infinita tra sprazzi di felicità e nuvole di tristezza.
La faticosa lotta contro una realtà che non ci piace ci accomuna tutti, un impegno costante ci vede annaspare contro ciò che è alla ricerca di ciò che vorremmo fosse, sicuramente con meno coraggio, determinazione e sacrificio delle Drag Queen, che per il loro sogno esagerato sono disposte a lottare incessantemente contro se stesse e la realtà che ci circonda.
di Benedetta Tintillini