Per la tradizionale uccisione del maiale e per lavorare la carne, si osservava attentamente la fase lunare. Se gli insaccati fossero stati preparati nella fase di luna crescente, o durante la luna piena, la loro conservazione sarebbe risultata precaria in quanto, affermavano i vecchi norcini, sarebbero presto irranciditi. Un tempo si credeva fermamente alla relazione esistente tra la luna e l’acqua (e liquidi in genere) per cui ad una fase più avanzata di crescita della luna, corrispondeva una maggiore presenza di acqua nella carne.
In ogni caso l’uccisione del maiale era una vera e propria festa poiché i vari step del lavoro (mattanza, pelatura, dissezione, scelta e lavorazione della carne, salatura delle parti da conservare e confezione degli insaccati) era svolto con la partecipazione di parenti e vicini.
L’occasione era una festa celebrativa dell’abbondanza come pure quella del 17 gennaio, Sant’Antonio abate, data in cui tra gli stornelli dei cantori si celebravano le nuove provviste messe a stagionare e ovviamente si invocava il santo perché proteggesse gli animali.
Nello stesso giorno dell’uccisione del maiale, il piatto tradizionale servito a quanti avevano collaborato con la famiglia, era la ‘padellaccia’, un abbondante mix di ritagli di carne residui, gli scarti della lavorazione, fritti assieme alle frattaglie in grandi padelle di ferro. Il consumo di questo piatto celebra ancora oggi la solidarietà ed è inserito in un contesto gioioso, al quale contribuiscono sovente generose razioni di vino.
(Fabiola Chàvez Hualpa, Le donne nel mondo rurale della Valnerina, Terni, tipolitografia Federici, 2012)
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