di Benedetta Tintillini
Alfonso Della Corte, giovane ed affermato fotografo e fotoreporter salernitano, anche se ormai umbro di adozione, ha rappresentato l’Umbria ad Expo 2015 ed in giro per il mondo, da Toronto a Shangai e Dubai, oltre ad essere stato finalista in alcuni concorsi internazionali e premiato come miglior portfolio Umbria.
In questo momento, nel quale sembrerebbe che non ci sia nulla di più semplice che catturare un’immagine, cerchiamo di conoscere più da vicino la sua esperienza e la sua filosofia.
Innanzitutto, Alfonso, non posso non chiederti come nasce la tua passione della fotografia.
Quella per la fotografia è una passione che mi è stata trasmessa dai miei genitori, fin dai 6/8 anni di vita, vedendoli scattare foto, mi cimentavo anch’io nel catturare immagini, soprattutto dei paesaggi che andavamo a visitare. Con il tempo la passione è cresciuta, ho studiato molto, ed ho abbracciato la fotografia, prima di tutto, come mia enorme passione.
I paesaggi sono ancora il tuo soggetto preferito?
Si ma non soltanto. Il massimo per me è riuscire e raccontare una storia in uno scatto, che sia di un luogo o di una persona. Ritengo che una bella foto non è quella esteticamente perfetta, ma quella che riesce a raccontare una storia che, nel mio caso, il più delle volte, è a scopo di denuncia o di sensibilizzazione. Da qui il mio profondo legame con l’Africa ed il Malawi in particolare. Intendo il mio ruolo di fotografo come quello di una persona privilegiata che entra in contatto con realtà lontane e difficili, al contempo la mia etica mi impone di proteggere i più deboli ed al tempo stesso denunciare e far conoscere situazioni difficili e complesse. Sono stato nei campi profughi siriani ed afghani, in India, e recentemente ho testimoniato le ferite dell’ultimo terremoto in centro Italia. In tutti questi casi, il mio approccio e lo scopo principale è stato, ed è, vivere insieme alle persone, conoscerne le storie, instaurare un rapporto di fiducia, e solo in un secondo momento fotografare per documentare. Godere e fotografare il paesaggio mi rilassa e mi fa star bene, rappresenta un mio stato d’animo, ed è un mio rifugio nei miei momenti no.
Hai accennato al Malawi, raccontaci i tuoi progetti in terra d’Africa.
Il Malawi è una terra che amo ed alla quale sono legato profondamente; terra che, devo ammettere, ricambia, moltiplicato, lo stesso sentimento verso di me. Il prossimo progetto che realizzerò riguarderà la documentazione del problema degli albini. Le persone albine vengono vendute dagli stregoni per i riti religiosi, essendo considerate alla stregua di oggetti. Tengo a sottolineare che le foto che faccio in Africa servono soprattutto per raccogliere fondi per l’associazione SOS Infanzia Negata. Anche grazie anche ai miei scatti, che documentano lo stato delle cose, ad oggi siamo riusciti a realizzare alcune scuole e stiamo costruendo un villaggio per bambini orfani.
Per realizzare le tue opere fai uso di macchine fotografiche particolari?
Uso macchine commerciali, sicuramente di qualità perché, man mano che si progredisce dal punto di vista tecnico, le esigenze aumentano, ma sia chiaro, non è la macchina che fa la fotografia. Una buona fotografia è il frutto di anni di studio, bisogna affinare la propria sensibilità, imparare a guardare e conoscere il lavoro degli altri fotografi.
Imparare l’uso della luce è essenziale. Fotografare vuol dire scrivere con la luce e con le ombre, imparare a capirle e gestirle è basilare.
La fotografia, per te, è un prodotto estemporaneo?
Assolutamente no, io prima di uno scatto ho già chiaro in mente il risultato, l’immagine ce l’ho prima in testa, e finché non ho ottenuto ciò che voglio non mi accontento. La fotografia è anche grande sacrificio, può capitare che io debba tornare, anche in situazioni difficili o proibitive, nello stesso luogo tante volte fino ad ottenere il risultato desiderato.
Che ruolo ha nei tuoi scatti la post produzione?
Poca in verità, dagli scatti grezzi ritocco l’immagine al fine di riprodurre l’effetto reale. Lo scatto ottenuto non è mai totalmente aderente al reale perché la macchina fotografica, realizzando l’immagine, fa già una sorta di post produzione. Diverso è il discorso della gestione delle luci, in questo caso non c’entra la post produzione, è questione di tecnica.
Anche tu, ai tuoi inizi, avrai utilizzato le macchine con il rullino, ne senti la nostalgia?
Il tempo ora è tutto, e la praticità e velocità del digitale è incomparabile. La poesia ed il fascino di veder nascere le foto nella camera oscura non hanno rivali, ma l’immediatezza del digitale è tutto.
Dal punto di vista della qualità, a mio parere la foto deve raccontare una storia, la qualità o la perfezione lasciano il tempo che trovano in casi di scatti di altissimo livello artistico o storico. Mi vengono in mente gli scatti dello sbarco in Normandia di Robert Capa: la qualità non sarà stata eccelsa ma lui era lì a testimoniare quell’evento, tutto il resto passa in secondo piano.
Prediligi le foto a colori o in bianco e nero?
Utilizzo tutti e due senza preferenze. Fotografo in bianco e nero quando vedo già la scena in bianco e nero. Il colore ha la capacità di comunicare immediatamente uno stato d’animo o una scena, il bianco e nero implica, da parte di chi osserva, tempo e volontà di leggere la fotografia; questo, a mio avviso, rende lo scatto più interessante, perché i dettagli vanno ricercati con impegno e attenzione.
C’è qualche grande fotografo che ti ha ispirato o che ammiri in modo particolare?
Certo che sì, innanzitutto Sebastiao Salgado, grazie a lui il mondo ha conosciuto realtà lontane come il Sael, o Kevin Carter, che ha denunciato attraverso i suoi scatti la fame in Africa, essendone interiormente colpito a tal punto da morire suicida all’età di 33 anni sopraffatto dal rimorso di non essere riuscito a salvare il bimbo immortalato nello scatto che gli valse il premio Pulitzer. Altri fotografi che ammiro immensamente sono i “mostri” come Cartier Bresson, Abbas, Scianna e Berengo Gardin.
La fotografia quindi ha un ruolo sociale enorme.
La foto deve comunicare. Il fotografo deve, innanzitutto, avere una sua etica umana e professionale, rispettando il proprio lavoro innanzitutto. Il grande impatto della fotografia può fare del bene ma anche irrimediabilmente danneggiare. Le foto devono essere scattate per smuovere le coscienze e non per lucrare, per quel che mi riguarda, non venderei mai, a scopo di lucro, i miei scatti dell’Africa o di Castelluccio. Essenziale, quando si fotografa, è l’umiltà, macchina fotografica e fotografia non sono in relazione diretta.
Tutto questo è molto bello ma la fotografia è anche la tua professione…
Vero. Da qualche anno faccio parte come socio dell’agenzia internazionale Clickalps, formata da un gruppo di fotografi, attraverso la quale collaboriamo con diverse agenzie internazionali per la pubblicazione di fotografie su riviste (nazionali ed estere) oltre ad organizzare workshop di fotografia di paesaggio in tutta Italia e in diversi paesi europei come Islanda, Lapponia, Norvegia, Irlanda, Olanda, Germania, per citarne alcuni.
Cosa c’è alla base del tuo entusiasmo?
Io, come la fotografia, sono in continua evoluzione. La voglia di scoprire e di migliorare mi porta ad avere lo spirito di sempre, quello di un principiante con tanta voglia di crescere.. Credo sia la base per non smettere mai di meravigliarmi…