“È il cielo che mi guarda o sono io ad essere guardato dal cielo?” scrive Omar Galliani nell’ultima frase della sua breve riflessione scritta in occasione della presentazione dell’autoritratto che l’artista, nato a Montecchio Emilia, ha voluto donare alla straordinaria collezione, la più grande del mondo nel suo genere, di autoritratti delle Gallerie degli Uffizi. Collezione iniziata dal cardinal Leopoldo e proseguita da gran parte dei Medici e dai Lorena fino ai nostri giorni.
È una frase inconsueta, costruita in maniera sorprendente.
Ma non vuol dire la stessa cosa, verrebbe da chiedersi? No, dalla penna di un artista da sempre così raffinato non può uscire una banalità se non addirittura un errore. Quindi bisogna fermarsi, leggere meglio, con molta attenzione, sforzarsi di approfondire: intanto sono due soggetti diversi, il cielo e io, come dire l’infinito e il “minuscolo” finito. E poi la prima parte della frase si appoggia a un verbo coniugato in forma attiva, la seconda allo stesso verbo ma in forma passiva. Quindi non vuol dire la stessa cosa. E se non vuol dire la stessa cosa Galliani si/ci pone un dubbio interessante, complesso e fertile: forse vuole suggerire che il “minuscolo” finito e l’infinito non sono poi così opposti, che nell’uno è compreso l’altro, che, come in una sorta di legge dei vasi comunicanti, è un dovere morale sentirsi “l’infinito” dentro.
Certo non ha voluto scrivere “… o sono io a guardare il cielo”, sarebbe stato oltre che banale un segno innegabile di presunzione: c’è invece una gerarchia ben salda nel pensiero di Galliani e in questa è il cielo a stare comunque al primo posto.
Anche nel guardare l’autoritratto, monumentale (150 centimetri per 150), sarebbe un vero spreco fermarsi a osservare la veduta d’insieme, la straordinaria raffinatezza dell’ombreggiatura del volto, sormontato dalla immancabile papalina nera, che si staglia nel nero profondo di un cielo popolato di segni e simboli. Bisogna avvicinarsi, spostarsi per cogliere i particolari, seguire il tratteggio della matita – si tratta di un disegno – godere della maestria dei tratti, assorbire l’intensità dell’atmosfera, ma anche esaminare approfonditamente la tecnica di esecuzione ma anche “sentire” la grande quantità di tempo necessaria alla minuziosa realizzazione.
Un disegno, si diceva. E per disegno si intende, di solito, una serie di tratti tracciati con diverse tecniche su di un foglio di carta. Galliani invece appone i suoi segni su una tavola di legno che ha un suo proprio modo di reagire alla pressione della mano dell’artista, ma che soprattutto offre una particolare texture del tutto originale. Ed è proprio da vicino che si possono apprezzare le tracce della fibra e del lavoro di levigazione che restano visibili creando un’affascinante ragnatela sottile di linee spesso parallele.“L’Autoritratto di Omar Galliani non è il primo disegno pervenuto nella collezione degli autoritratti degli Uffizi” – scrive Eike D. Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi -. “Esempi assai famosi -prosegue il direttore -, tra i disegni giunti nel passato, sono due pastelli: il primo di un’artista che portò quella tecnica a vertici di grande virtuosismo come Rosalba Carriera, e il secondo di Jean-Etienne Liotard, commissionato da Francesco Stefano di Lorena, marito dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che lo inviò da Vienna a Firenze nel 1744. Altri ancora sono progressivamente affluiti fino ai giorni nostri nella raccolta degli autoritratti principiata da Leopoldo de’ Medici, sino a comprendere artisti del Novecento e dei giorni nostri, italiani (per esempio, Achille Funi, Olga Carol Rama, Giulio Paolini) e stranieri (Francis Picabia, Fernard Léger, Ernst Fuchs, Jean-Michel Folon…). Ma nessuno di essi ha le stesse dimensioni e la stessa, sorprendente, tecnica”.
L’opera sottolinea ulteriormente l’intrinseco legame fra l’autore e il cielo pieno di stelle di varia grandezza che disegnano simboli e personali costellazioni. Buddha, il drago, i vasi comunicanti (appunto), lo scorpione, il triangolo, le ali, la spada, il leone, le forbici, la mandibola d’asino, definiti ‘quasi i suoi ‘santi protettori’ da Marzia Faietti, coordinatrice della Divisione Educazione, Ricerca e Sviluppo, nell’elegante volumetto preparato per l’occasione.”Le opere di Galliani -a scrivere è ancora Marzia Faietti- mostrano con evidenza un’intima polarità nella sua arte: l’abilità mimetica nei confronti della natura, da un lato, e, dall’altro, la capacità di smaterializzare figure e oggetti attraverso le soluzioni tecniche adottate. La tecnica e la sua perfetta sintesi con lo stile diventano nel pittore docili strumenti di una visione privata della densità materica, dove l’ars aemula naturae, dopo aver apparentemente celebrato il suo massimo apogeo attraverso la restituzione delle sembianze esteriori, cede il passo al sopraggiungere imperioso dell’evocazione, che ha finalmente il sopravvento sulla descrizione.”
E le rose bianche e i teschi da sempre fanno parte del bagaglio simbolico di Omar Galliani per evocare la caducità della bellezza e della gioventù e l’ineluttabilità della morte.
Rose e teschi presenti in lieve sospensione nei due pannelli laterali del trittico “Notturno”, al centro della bella mostra che, nella sala Detti, il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe volle dedicargli nel 2008 e che da allora fa parte del patrimonio delle Gallerie degli Uffizi. Nel pannello centrale, anch’esso sospeso nell’aria densa, un pianoforte a coda simboleggia l’arte nella sua forma più “astratta”, la musica che nella sua essenza non ha bisogno di nessun altro supporto che non sia il fluire del tempo.
Fonte: Ufficio Stampa Gallerie degli Uffizi